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Decreto Sicurezza: più poteri ai sindaci significa anche più azioni o inadempienze di cui saranno chiamati a rispondere

Decreto Sicurezza: più poteri ai sindaci significa anche più azioni o inadempienze di cui saranno chiamati a rispondere

Non senza una coda di polemiche è stato approvato il decreto del ministro Minniti sulla sicurezza nelle città che amplia i poteri di intervento dei sindaci su più fronti del degrado.
Il ministro ha respinto al mittente le critiche giunte verso il provvedimento anche da voci appartenenti alla sua stessa parte politica che, come nel caso di Roberto Saviano, hanno definito il testo una “legge classista e di destra”.

Da un’intervista a La Repubblica è arrivata la replica del titolare del dicastero dell’Interno: “Quindi il decreto sulla sicurezza urbana sarebbe una legge di destra… straordinario… Forse perché qualcuno non l’ha letto. Allora qualcuno mi risponda – prosegue – è di destra una legge che sottrae la definizione delle politiche della sicurezza nelle nostre città alla competenza esclusiva degli apparati, trasformando la sicurezza in bene comune e chiamando alla sua cogestione i rappresentanti liberamente eletti dal popolo, vale a dire i sindaci? È di destra un decreto che, per la prima volta nella storia repubblicana, risponde a una legittima richiesta di sicurezza con il solo strumento amministrativo, senza aumentare le pene o introdurre nuovi reati? È di destra un provvedimento che è stato scritto a quattro
mani con l’Anci, con sindaci italiani che vanno da Zedda a Nardella, da Decaro a Sala?”.

Sicurezza e decoro urbano, situazioni di grave incuria o degrado del territorio, orari di vendita e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche, spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio, occupazioni abusive, writer, arresto in flagranza differita di reato (rilevata da impianti di videosorveglianza), daspo (una sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 300 euro e un ordine di allontanamento da dove si sia lesa la sicurezza dei luoghi e delle persone) sono i fronti di intervento che chiamano direttamente o indirettamente in causa l’azione dei sindaci. Il decreto stanzia inoltre 1.900 milioni di euro per quest’anno, 3.150 per il 2018 e 3.500 per il 2019 e 3.000 per ciascuno degli anni che vanno dal 2020 al 2032 finalizzati al recupero delle periferie. Prevede altresì di mettere le spese per la videosorveglianza fuori dal Patto di stabilità nei bilanci dei Comuni.

A chi avanza timori che i sindaci vengano trasformati in “sceriffi” Minniti risponde ricordando che essi non avranno il potere di disporre il daspo, che rimane ai questori, bensì di segnalare le aree urbane necessitanti di particolari sforzi di controllo del territorio. Ai prefetti le competenze sugli sgomberi di occupanti abusivi di immobili. I sindaci, quali rappresentanti delle comunità locali, possono ora adottare ordinanze dirette a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana.

“Le ordinanze contingibili e urgenti che il sindaco può adottare – recita il decreto – sono quelle dirette a prevenire e contrastare le situazioni che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi o di illegalità, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio con impiego di minori e disabili, o fenomeni di abusivismo, quale l’illecita occupazione di spazi pubblici, o di violenza, anche legati all’abuso di alcool o all’uso di sostanze stupefacenti”.

Pur rimanendo quindi una ripartizione di competenze fra le figure dei sindaci, dei questori e dei prefetti, chiamati a stipulare dei “Patti per la sicurezza urbana” per la “prevenzione dei fenomeni di criminalità diffusa e predatoria, la promozione del rispetto della legalità e la promozione del rispetto del decoro urbano”, l’aumento dei poteri dei sindaci espone tali cariche amministrative a possibili conseguenze giuridiche e più complessivamente “politiche” ulteriori ancora da valutare. Diventa infatti più probabile che all’interno di tutte queste numerose casistiche, molti potranno essere gli eventi riconducibili a ipotesi di un’insufficiente azione preventiva o deterrente adottata da parte dei primi cittadini. Si potranno cioè verificare casi in cui le vittime di determinati reati o disagi oggetto di questo decreto riterranno di chiamare i sindaci a rispondere personalmente di quanto subito, accusandoli di non aver ottemperato ai propri compiti previsti dal decreto stesso. Tema questo che si lega direttamente a quello della responsabilità civile ed eventualmente penale e della “colpa grave” che riguarda i detentori di cariche pubbliche, rispetto al quadro di tutele assicurative all’interno delle quali devono svolgere la propria attività amministrativa.

Il sindaco di Genova condannato a 5 anni per la gestione dell’alluvione del 2011











Il sindaco di Genova condannato a 5 anni per la gestione dell’alluvione del 2011

Gli amministratori e i dipendenti pubblici sono sempre più esposti in solido ai rischi della propria attività e al giudizio della Corte dei Conti. Ne deriva la fondamentale necessità di tutelarsi rispetto alla “colpa grave”.

Il sindaco di Genova Marta Vincenzi è stata condannata a cinque anni di reclusione per le responsabilità legate ai fatti dell’alluvione che colpì la città il 4 novembre 2011. Oltre all’ex sindaco, sono stati condannati l’ex assessore comunale alla Protezione civile Francesco Scidone (4 anni e 9 mesi), i dirigenti comunali Gianfranco Delponte (4 anni e 5 mesi), Pierpaolo Cha (1 anno e 4 mesi) e Sandro Gambelli (un anno).

Si tratta di una sentenza in primo grado di giudizio che potrebbe essere modificata nei successivi, ma riporta d’attualità il tema dei rischi legati all’esercizio delle proprie funzioni per gli amministratori e dipendenti pubblici.
Per legge, è l’ente stesso a rispondere dei danni a terzi procurati per la colpa “lieve” di un amministratore o di un dipendente, grazie a specifiche coperture assicurative, ma in caso di colpa cosiddetta “grave”, essi sono invece tenuti a pagare personalmente i danni causati dal proprio operato.

Vi è una colpa del dipendente pubblico o amministratore quando lo stesso compie un fatto illecito per imprudenza, negligenza o inosservanza delle leggi e regolamenti e il soggetto che interviene a determinare se la sua condotta rientri nella fattispecie della “colpa lieve” o di quella “grave” è la Corte dei Conti. Va inteso che per colpa “grave” non si intende giuridicamente la gravità più o meno pesante del danno in sé procurato, in termini di conseguenze sui beni, sulle persone, sulle risorse, ecc., ma la gravità dell’inadempienza amministrativa negli atti compiuti che di quel danno è l’origine.

Negli ultimi anni le richieste di risarcimento pervenute agli enti pubblici da parte di privati cittadini, ditte escluse da appalti pubblici e soggetti che si ritengono danneggiati dall’operato di un funzionario o di un amministratore pubblico sono aumentate in modo esponenziale. Sempre più spesso, inoltre, la Corte dei Conti è portata a definire “grave” il comportamento colposo del dipendente amministratore pubblico e lo obbliga a risarcire personalmente il danno.

Questi profili professionali si trovano quindi oggi ad agire a questo proposito in condizioni di rischio tali da giustificare e rendere consigliabile il ricorso a rapporti di consulenza personali con propri broker assicurativi, a tutela della propria posizione rispetto a quelle casistiche che non rientrano fra le coperture loro offerte dall’Ente di appartenenza.